10/10/2013

Eutanasia, autodeterminazione, testamento biologico e dintorni: alcuni ragionevoli dubbi

Due recenti fatti mi spingono a riflettere sull’eutanasia e, più in generale, sulla tematica del fine vita.
Da un lato la storia di Nathan (Nancy) Verlhest cittadino belga che a 44 anni ha scelto di uccidersi ricorrendo ad una “legale” iniezione letale: Nathan era nato donna (Nancy) e, seguendo poi tutto l’iter medico, chirurgico e psicologico, era diventato da pochi anni “uomo”, dopo un travagliato cammino di rifiuto di sé e della sua sessualità, segnato anche da intolleranze familiari ( ne abbiamo parlato qui http://www.prolifenews.it/notizie-dal-mondo/nancynathan-verhelst-leutanasia-belgio/). Ma Nathan-Nancy, nonostante la realizzazione del tanto agognato cambiamento, non ha trovato serenità e soddisfazione, continuando a rifiutarsi e optando infine per l’eutanasia, quella “dolce morte” che ha trovato in un ospedale di Bruxelles e che avrebbe così messo la parola fine al suo disagio psicologico.
Dall’altro un evento formativo di avvocati a cui ho presenziato e che aveva a tema “l’autodeterminazione del paziente e il testamento biologico”. Dalla relazione ascoltata sono uscito con un po’ di amarezza, di disorientamento, di mesta rassegnazione. Non perché sia stata osannata l’eutanasia ma perché, pare a me, si sia cercato di sorvolare, di evitare una coraggiosa presa di posizione a tutela dell’indisponibilità della vita. Ammettiamo pure che, dal titolo, l’incontro avesse probabilmente lo scopo di analizzare e presentare alcuni degli aspetti più singolari e delicati che il giurista si trova ad affrontare dal punto di vista civile e penale nell’ambito del diritto alla salute del paziente, della responsabilità professionale del medico e degli operatori sanitari. Ma mi chiedo: si può, oggi, scindere una riflessione sul cosiddetto testamento biologico e sull’autodeterminazione del paziente da un dibattito sull’eutanasia? E’ possibile limitarsi a “non sconfinare” sulla “dolce morte” e porre solamente degli interrogativi, fornire punti di vista, analizzare la giurisprudenza e la legislazione vigente avendo come unico orizzonte in cui spaziare quello della relazione medico-paziente e dei rispettivi diritti e doveri in materia di tutela della salute e dell’autodeterminazione soggettiva?
Semplificando: il diritto alla vita e la sua indisponibilità che fine ha fatto o che fine sta facendo?
Lungi da me qualsiasi disquisizione in merito alle cure mediche palliative, alle terapie del dolore: molte esperti ben più competenti e specializzati in materia spendono energie e consumano inchiostro sul tema.
Solo alcuni ragionevoli dubbi.
Può l’esaltazione del diritto dell’individuo a disporre autonomamente e assolutamente della propria salute e della propria vita prevalere sulla dignità propria di ogni uomo in quanto uomo, di ogni essere umano tale dal primo istante del concepimento fino all’esalazione dell’ultimo respiro? Si può snaturare l’obiettività e l’intrinsecità della dignità umana, della stessa vita umana e relegarla nelle retrovie del dibattito etico in questione?
E’ lecito che sia il soggetto a essere messo nella possibilità di decidere ab-solute sulla propria salute, sul proprio corpo, sul decorso della propria vita e, quindi, gli si venga attribuito il diritto di morire? O che questo diritto sia attribuito a un parente stretto o a un tutore che possa decidere senza sapere (o solo ipotizzando) quale sia la volontà del tutelato che si trova in stato di incoscienza permanente?
Come e chi decide quali tipologie di cure ammettere, quali no, in quali casi, in quali invece no?Qualsiasi patologia? Quella invalidante ma non troppo? Quella permanente? C’è in questa cervellotica possibilità di scelta una vera, libera e piena consapevolezza del paziente e del medico?
E’ così possibile ribaltare l’indisponibilità della vita fino al punto tale di affermare che la vita dopo tutto è un bene disponibile al pari livello della proprietà o di altri diritti reali?
Solo alcuni ragionevoli dubbi.
Sostenuto da direttive, pronunce giurisprudenziali e politiche europee ad hoc il partito pro-eutanasia sta dilagando in Europa facendo leva sull’assolutizzazione dei desideri e delle volontà del soggetto, sulla sua autonomia che può svariare dalla predisposizione di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario futuribile, fino alla scelta e quindi alla depenalizzazione dell’eutanasia e alla stessa assistenza delle istituzioni pubbliche.
Non è questa una legalizzazione, un accompagnamento, un sostegno ad un qualsivoglia desiderio di suicidio?
Non è che ci stiamo sempre più addentrando in una selezione eutanasica della specie umana, autorizzando l’eliminazione e l’autoeliminazione di tutte quelle persone che non corrispondono più ai canoni moderni di efficienza, produttività, bellezza, dinamicità? Non è questa una discriminazione razziale di novecentesca memoria?
Rifletteva padre Giorgio Carbone poco più di un lustro addietro “Se si ammettono in pratica delle eccezioni a un bene indisponibile e inderogabile, dopo un po’ il motivo dell’eccezione svanisce e il divieto, che formalmente vige per tutte le altre ipotesi, non sarà rispettato. È il fenomeno della china scivolosa, non teorico, ma di fatto accaduto nei Paesi Bassi. Nel 1993 viene disciplinata l’eutanasia su richiesta con l’eufemismo di «cessazione attiva della vita». Nel 1995 i giudici iniziano ad avallare casi di «cessazione attiva della vita» di malati non terminali in stato di sconforto puramente psicologico e di persone incapaci di consenso, come i neonati handicappati. Poi l’eutanasia è stata praticata su adulti senza il loro consenso. Nel 1998 una riforma legislativa riduce il controllo della procura giudiziaria sulle pratiche di eutanasia. In una società in cui l’uccisione su richiesta è considerata lecita, i malati cronici o terminali finiscono in una situazione in cui sono costretti ad esprimere il loro desiderio di morire come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i propri parenti oppure a giustificare il fatto di non chiedere la morte, ma di voler continuare a vivere. Inoltre, l’atto eutanasico, anziché garantire una «morte con dignità», non contribuirà forse a far diminuire la nostra attenzione e la nostra responsabilità verso i malati nel lenire il loro dolore e nell’assisterli?” (http://www.comitatoveritaevita.it/pub/nav_Leutanasia_come_diritto_individualefatto_privato.php).
Anche quelli di padre Carbone sono ragionevoli dubbi.
E forse che, tornando alla vicenda con cui si è iniziato, Nathan (Nancy) Verlhest non poteva essere aiutato, accompagnato in un cammino di guarigione psicologica, fisica, emotiva anziché autorizzato dapprima a cambiare sesso e poi, una volta deluso e affranto per la scelta, abbandonato definitivamente nella sua opzione per il suicidio assistito?
Non è che forse il vero obbiettivo sia quello di inculcare sempre più diffusamente nella società un sentimento pietistico che da un lato aderisce e aiuta il suicidio di chi non si sente bene con se stesso e nel mondo per dolorose vicissitudini, e dall’altro vuole sbarazzarsi di persone che non hanno più nulla di rilevante da dire, inutili al funzionamento del sistema produttivo e sociale?
Ma le nostre società, i nostri sistemi politici e giuridici non si fondano anche e soprattutto sulla tutela della vita, in particolare di quella più debole, sulla protezione e l’assistenza delle persone ammalate e handicappate, sull’accompagnamento e l’aiuto medico ed economico di tutte le vite? Oppure si selezionano solo quelli che servono e che vogliono vivere?
Mi si permettano ancora questi ragionevoli dubbi, anche alla luce delle serpeggianti prospettive del nostro paese (http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-passo-felpato-delleutanasia-in-italia-7358.htm) e alle recenti proposte di legge presentate al Parlamento italiano per la legalizzazione dell’eutanasia.
In un articolo apparso sul Corriere del 27 settembre scorso (http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_settembre_27/pazienti-stato-vegetativo-famiglie_06b61466-26b8-11e3-a1ee-487182bf93b6.shtml), l’Istituto neurologico Besta di Milano ha svolto un’indagine sulla situazione delle famiglie che assistono un paziente in stato vegetativo evidenziando come per i familiari “ il carico assistenziale giornaliero si mantiene elevato anche a distanza di due anni, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una condizione di malattia che tende a stabilizzarsi. La percentuale di familiari che passa più di tre ore al giorno con i malati, in due anni, è salita dal 55 per cento al 59,7. E il 34 per cento dei familiari è stato costretto a rinunciare al lavoro, in maniera definitiva o temporanea, per accudire il parente malato.”. E ancora che “ il malato e la famiglia devono poter contare su un’assistenza adeguata durante tutta la malattia e non solo nelle prime fasi”.
Ecco che forse i ragionevoli dubbi, almeno in parte, si dipanerebbero qualora, al posto di progetti di legge a favore dell’eutanasia, si proponessero politiche a sostegno di ogni ammalato, di ogni vita, politiche e leggi di solidarietà, assistenza, caloroso e condiviso accompagnamento anche per le famiglie delle persone in stato vegetativo e dei malati terminali, prestando ogni aiuto e ogni soccorso economico e medico possibile, senza alcun accanimento terapeutico, ma certo non assentendo alla loro eliminazione hic et nunc.

di Giampaolo Scquizzato

Blu-Dental

Questo articolo e tutte le attività di Pro Vita & Famiglia Onlus sono possibili solo grazie all'aiuto di chi ha a cuore la Vita, la Famiglia e la sana Educazione dei giovani. Per favore sostieni la nostra missione: fai ora una donazione a Pro Vita & Famiglia Onlus tramite Carta o Paypal oppure con bonifico bancario o bollettino postale. Aiutaci anche con il tuo 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi firma e scrivi il codice fiscale 94040860226.